Lo scrittore Antonio Manzini racconta un mondo tutto femminile. L’una di fronte all’altra si trovano Mirta, moldava, che si è lasciata alle spalle un figlio di 12 anni. E donna Eleonora, la ricca anziana che lei assiste
Sono come comparse nelle nostre vite. Donne che accompagnano i nostri vecchi fino alla morte, e poi ci salutano. Per ricominciare tutto da capo, e passare di nuovo dalla fine. Pagando un prezzo altissimo. Una di loro, Mirta, nata in Moldavia e arrivata a Roma per lavorare, è la protagonista del nuovo romanzo di Antonio Manzini, Orfani Bianchi (Chiarelettere). Dopo Rocco Schiavone, che lo ha portato in testa alle classifiche dei libri più venduti in Italia (e che ora diventerà pure una fiction), lo scrittore romano entra in un mondo tutto femminile. Di eroine tragiche. Di emigrate e mamme a distanza, che hanno rinunciato alle proprie famiglie per occuparsi delle nostre famiglie disgregate. «Il romanzo è nato guardando Maria, la donna che stava accompagnando mia nonna verso la morte», racconta Manzini. «Mi sono chiesto che vita facesse, che prezzo stesse pagando, e ho cominciato a parlare con lei».
Mirta parte dalle campagne moldave alla ricerca di un lavoro in Italia. In Moldavia lascia Ilie, suo figlio di 12 anni, con la nonna. Ma mentre lei fa su e giù a pulire le scale dei palazzi romani, la madre muore. L’unica soluzione è lasciare suo figlio in un orfanotrofio, in un Internat.
Ecco cosa sono gli “orfani bianchi”, bambini che i genitori ce li hanno, ma a distanza. «In un orfanotrofio? Ma tu sei viva!», le dice qualcuno. «Brutto eh?», risponde lei. Secondo l’Unicef sono almeno 350mila gli orfani bianchi in Romania, 100mila in Moldavia. Crescono con padri, nonne, zii, vicini di casa o negli istituti. E spesso la sofferenza è così tanta, l’attesa delle mamme troppo lunga, che preferiscono togliersi la vita.
«Posso sapere una cosa?» intervenne Pavel. «Mi dica.» «Sono tutti orfani?» «No» disse la direttrice. «Neanche la metà. Molti sono come Ilie. Noi li chiamiamo orfani bianchi»
Il libro è frutto di tre anni di scrittura e ricerca. «Alla fine ho capito che il prezzo che pagano queste donne è alto», dice Manzini. «È il prezzo dell’abbandono delle famiglie». E infatti Mirta si sente una pessima madre, costretta com’è a dover pensare solo ai bisogni materiali del figlio. A mandargli i soldi e i videogiochi. Leggiamo le sue email inviate al bambino. Sentiamo i chilometri che la separano da lui. Ilie soffre, non parla, risponde a monosillabi. Mirta va avanti, tira dritto, lavora come un somaro.
Ma a un certo punto si riscopre una donna, si ricorda che può ancora piacere a un uomo. E vengono fuori i suoi sogni semplici. Mirta vuole lavorare, ritrovare la serenità, portare suo figlio Ilie con lei a Roma. Ma ancora non ci riesce, perché i soldi che guadagna le bastano per mantenerlo in Moldavia, non in Italia. E così finisce per vivere da sola, in casa di estranei, in una città che non le appartiene, in una sorta di “mondo di sotto”, popolato da emigrati giardinieri, colf, badanti, autisti. Un mondo livellato, che dall’alto sembra non avere differenze. «Vada per una bulgara, romena o africana», dice la padrona. Come se fossero la stessa cosa, pensa Mirta. Persone di cui i personaggi del libro neanche si impegnano a ricordare i nomi. E così il filippino, per comodità, la padrona di casa preferisce chiamarlo Filippo.
Fosse stato per lei avrebbe preso il figlio e quei quattro vestiti che aveva e se lo sarebbe portato a Roma. Ma dove? In quella stanza che divideva con Dolores? L’affitto di una casa decente nella capitale superava abbondantemente i cinquecento euro al mese. E c’erano da aggiungere le spese. Senza pensare agli altri soldi che servivano per la scuola, i vestiti, i libri, il cibo. Tutto costava un accidente, laggiù, tutto sembrava fatto d’oro. E un figlio da mantenere era un lusso.
«È un mondo di donne che incontrano altre donne», spiega lo scrittore, «gli uomini li vediamo solo in una funzione di controllo o come finti portatori di speranze di futuro». E in questo mondo di donne, «sono messe una di fronte all’altra due disperazioni». Quella di Mirta, e quella di donna Eleonora, la ricca anziana che abita all’Aventino di cui Mirta si prende cura. Per la maggior parte del tempo le due vivono in silenzio. Dietro le inferriate di una villa, che sono come le sbarre di un carcere. Mirta parla, Eleonora non risponde. E a volte – esasperata – Mirta diventa cattiva, finendo per negare all’anziana la sua soap opera preferita. Però, a un certo punto, le due si incontrano. «Nella disperazione siamo uguali», dice Eleonora a Mirta. Hanno un vita opposta. Ma, toccato il fondo del barile, finiscono per somigliarsi di fronte a un mondo disumano.
«Questo incontro è la fotografia tragica di come sia ridotta la famiglia», dice Manzini. «Dopo il boom economico, la famiglia, quello che era un clan fatto di zii, zie, nonni, padri e madri, si è suddivisa in nuclei segregati in piccole case, piccole unità solitarie. Abbiamo smesso di occuparci l’uno dell’altro, frammentandoci, affidando i nostri figli o i nostri anziani alle badanti». E così, alla fine, anche noi «ci scopriamo orfani. Delle famiglie che non ci sono più».
Sì, veniamo a rubare il lavoro agli italiani! Quasi sorrise. Quale italiano avrebbe fatto il suo lavoro? Chi sarebbe stato attaccato a un anziano avvizzito e morente ventiquattr’ore su ventiquattro? Neanche erano in grado di conviverci i familiari, concentrati com’erano sulla loro esistenza, figurarsi se un estraneo si sarebbe sobbarcato quella vita.
Orfani bianchi
Ci sono persone che vediamo senza realmente guardarle, non solo, le cataloghiamo grossolanamente per gruppi ”quelli dell’est”, i filippini, gli arabi, i neri, senza minimamente riflettere su chi siano, da dove vengano e che vita e storia abbiano alle spalle. Senza generalizzare ovviamente, ma difficile negare che per la maggioranza delle persone funzioni così.
Ecco, Antonio Manzini ha deciso di raccontare la storia di una di queste persone: Mirta, venuta dalla Moldavia in cerca di futuro, più per il figlio che per se stessa. E calandosi nei panni di Mirta, Manzini ci racconta di un mondo fatto di sofferenza per la mancanza della vita vera che si vorrebbe vivere, di scatole che viaggiano attraverso l’Europa destinate alla famiglia lontana. Pacchi pieni di oggetti, di giochi che vogliono essere un surrogato d’amore, un tampone all’emorragia affettiva, un lenitivo ai sensi di colpa. Perché è difficile vivere lontano dal proprio figlio, dalla propria famiglia. Atroce è il pensiero di perdere i momenti felici e anche i dolori del proprio bambino, di saperlo crescere senza un abbraccio materno. Bambini che vivono da orfani senza esserlo, gli “orfani bianchi” .
Ma il pensiero e la speranza di un futuro migliore non bastano a lenire il dolore dell’assenza. Messaggi e telefonate non bastano a colmare la distanza. Così ti perdi la vita e anche la morte.
E’ il desiderio di riunirsi ai propri cari che aiuta a sopportare le privazioni, i calci in faccia e la poca considerazione, nonostante queste donne abbiano lasciato tutto per prendersi cura dei nostri anziani. Troppo spesso si fa leva sulla loro disperazione,approfittandosene.
Manzini ha cambiato registro e ha raccontato una storia durissima, senza sconti, come la vita.
CRISTINA AICARDI @MilanoNera
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